Cristo unica salvezza
Cristo Gesù unica salvezza per la persona umana
Se possibile, senza banalità né facile retorica
Lo scorso settembre, al festival della letteratura di Mantova, è stato presentato un libro dal titolo inconsueto, Chiedo scusa. Scritto da Francesco Abate e Saverio Mastrofranco, è un racconto autobiografico che narra le vicende di un uomo che riesce a guarire dal tumore al fegato grazie al trapianto. Presenta osservazioni e considerazioni che meritano riflessione attenta anche da parte del credente. Se ne raccoglie qualcuna per tradurla in termini di salvezza in Cristo.
1. Il paziente in attesa di trapianto viene dotato di un telefono cellulare che chiamerà una volta sola. Se squilla è per avvisare che l''organo di un donatore è disponibile per il trapianto. La telefonata restituisce al paziente un''immediata sensazione di vita. C''è tuttavia anche la consapevolezza che qualcuno è dovuto morire perché il dono (trapianto) si possa fare.
Quale somiglianza con la salvezza in Cristo della persona umana! Ciascuno riceve infatti una chiamata unica, irripetibile, diversa da ogni altra: la «chiamata alla salvezza per mezzo del Vangelo» (2 Tes. 2,13 s.). Si tratta di una chiamata sommessa e dolce, perché si viene chiamati ad una speranza unica e rara, quella della salvezza in Cristo Gesù (Ef. 4,4). La chiamata avviene con un solo «mezzo»: il Vangelo. È questo lo strumento che contiene in se stesso «la potenza (dúnamis) di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rom. 1,16).
Alla propria generazione si può certo proporre il Vangelo tenendo presente il cambiamento del linguaggio con cui si comunica, le diverse culture e mentalità. Si possono certo utilizzare le varie forme di comunicazione che nel corso del tempo divengono disponibili. Proprio come si deve considerare che può diventare addirittura dannoso attribuire un''eccessiva importanza alla progettazione di metodi per l''evangelizzazione i quali spesso diventano - se possibile - più importanti, grandiosi e costosi del Vangelo stesso. Ma il Vangelo è costato il sacrificio di Gesù. La «la potenza (dúnamis) di Dio per la salvezza» sta nel Vangelo, non nei metodi o mezzi. Spesso risuona la domanda banale: «Voi che metodo adoperate?» Questione che avrebbe senso se si trattasse di vendere dentifricio o di promuovere un partito politico.
Ma per quel che riguarda la «chiamata» del Padre le cose stanno in modo affatto diverso. Gesù infatti dice che «nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; ed io lo risusciterò nell''ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre ed ha imparato da lui, viene a me» (Gv. 6,44). Il Padre attira, il Padre ammaestra, dal Padre si impara. E si viene a Cristo Gesù. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame, e chi crede in me non avrà mai sete» (Gv. 6,35; in queste parole sta la chiave di lettura per intendere bene tutto il discorso di Gesù in Gv. 6). Ma per sfamarsi e dissetarsi occorre fidarsi della «potenza» del Vangelo e confidare nella potenza del Padre che attira a sé chi vuole. Occorre solo proporre con umiltà e semplicità il Vangelo di Gesù. È proprio questo lo strumento-e-il-metodo ottimo che il Signore adopera per «chiamare».
Quando tuttavia la «chiamata» del Vangelo finalmente arriva, significa che qualcuno è dovuto morire per consentire a me/te di vivere. Il dono (grazia) della vita nuova e vera si concretizza nel sacrificio (sangue) di Gesù:
E non c''è distinzione, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio; e sono giustificati gratuitamente per la sua benevolenza, grazie alla redenzione avvenuta in Cristo Gesù. Dio lo ha esposto quale propiziatorio nel suo sangue (...) (Rom. 3,23 s.).
Con la «chiamata» si verifica un vero e proprio ritorno alla vita. La persona era morta ed è tornata a vivere, era perduta ed è stata ritrovata, come narra Gesù nella parabola del figlio prodigo (Lc. 15,24). La sensazione di vita, anzi di ritorno alla vita, è palpabile. Si esce dal tunnel della morte per entrare nella vita. Si passa dal potere tenebroso della morte al regno della libertà e del perdono in Cristo (Col. 1,13 s.).
2. I famigliari del donatore (una donna, in questo caso) si recano a trovare il trapiantato e lo interrogano con ansia: «Come stai? Come va? Se tu stai bene, anche noi stiamo bene; se tu ce la fai, ce la facciamo anche noi!»
È buona questa solidarietà umana, anche se frutto di dolore. Del resto, quando mai siamo stati capaci d''imparare qualcosa senza dolore? Una parte vitale del nostro caro, ormai morto, viene in-trodotta nel corpo del trapiantato, ed ecco che questi ricomincia a vivere, e in lui vive in un certo senso anche il nostro caro.
Nella lunga preghiera che ne precede l''arresto, Gesù implora che «come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch''essi [i discepoli] siano in noi» (Gv. 17,21). Il credente che si affida al Salvatore, viene «in-nestato» in Cristo (Rom. 11,17). La persona che confida in Cristo e si fa battezzare viene «ri-vestita» di Cristo (Gal. 3,27). Quale maggior dimostrazione di questo straordinario innesto/trapianto di quella che si legge nelle parole di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2,20).
Si tratta di immagini significative che mostrano quanto intimo sia il rapporto vitale che viene ad instaurarsi fra la persona umana e il Salvatore che si è donato per la sua salvezza. Si tratta di un rapporto così rivoluzionario da determinare addirittura un cambiamento a livello famigliare e la conseguente appartenenza del salvato a una famiglia diversa da quella di origine, «la famiglia di Dio» (Ef. 2,19). In questa famiglia mi è «fratello, sorella e madre» chi fa la volontà del Padre di Gesù (Mc. 3,35). In questa famiglia si è solidali: se tu stai bene, sto bene anch''io; se ce la fai tu, ce la faccio anch''io. In questa famiglia, che è nuova perché è «di Dio», nessuno è un''isola. Nella famiglia di Dio c''è osmosi perfetta tra noi e voi; si prende sul serio e diventa concreta l''espressione di Paolo apostolo: "Ora noi viviamo, se voi state saldi nel Signore" (1 Tes. 3,8-13).
3. Abate racconta di una sua esperienza in piscina, dove si reca per ragioni terapeutiche dopo il trapianto. Qui incontra alcune donne in stato interessante. Esse conoscono le sue vicissitudini e gli si avvicinano per toccare il trapiantato. Chissà, forse vogliono toccare la donna che è in lui e che gli ha fatto dono della vita! Forse è un tocco di buona sorte. Così queste donne portatrici di vita toccano la vita.
La persona umana ha un bisogno disperato di toccare: il marmo della tomba del Santo a Padova, le reliquie di San Pio ... però si riesce a toccare sempre cose caduche, effimere, che sono comunque velate di morte. Si ha pure un bisogno disperato di essere toccati: un abbraccio, un bacio, un gesto d''affetto, un segno d''amore...
Al momento della trasfigurazione di Gesù, gli apostoli presenti sono presi da paura. Ma il tocco di Gesù elimina il loro timore, li rassicura (Mt. 17,7). In casa di Pietro la suocera del discepolo ha la febbre. Ed ecco, il semplice tocco di Gesù la guarisce subito (Mt. 8,15). Quando, pochi giorni prima di morire, papa Albino Luciani parlò di Dio come madre, pensava certo anche a questo brano di Isaia:
Rallegratevi con Gerusalemme, / esultate in essa quanti la amate. / (...) Poiché così dice Iahvé: / Eccomi, io convoglierò verso di essa, / come un fiume, la prosperità; / come un torrente in piena / la ricchezza dei popoli; / i suoi pargoli saranno portati in braccio, / sulle ginocchia saranno accarezzati. / Come una madre consola un figlio / così io consolerò voi; / in Gerusalemme sarete consolati... (Is. 66,10 ss.).
Portare in braccio, mettere sulle ginocchia, accarezzare, consolare sono dolci espressioni che rimandano al tocco di Dio verso la persona umana. Scopriamo qui l''abbraccio affettuoso con cui Dio-Madre cura la sua creatura. Se solo riuscissimo a comprendere con la mente e col cuore quanto è vitale questo tocco materno di Dio... Potremmo allora persino immedesimarci nell''apostolo Giovanni che «contemplò e toccò» Gesù, toccò la vita stessa. Quella vita che si è «manifestata», che è stata «testimoniata», «annunciata», e che può donare «gioia piena» (1 Gv. 1,1 ss.).
4. I trapiantati si sentono fra loro realmente tutti uguali. Già si attua in loro la lezione morale sull''uguaglianza dei morti presentata nella famosa poesia ''A livella di Antonio De Curtis, in arte Totò.
Quanto è vero questo fatto anche per i discepoli di Gesù! Essi sono davvero tutti uguali perché, come ricorda in modo magistrale l''epistola ai Romani, gli uomini sono tutti peccatori. Fra loro non c''è proprio nessuna «superiorità», perché «tutti, giudei e greci, sono sotto il peccato» (Rom. 3,9). La «malattia mortale» del peccato, come la chiamava il teologo e filosofo danese S. Kierkegaard (1813-1855), accomuna proprio tutti, senza eccezione alcuna. Solo la «sovrabbondanza» della grazia (dono) di Dio consente agli uomini di trovare guarigione «per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Rom. 5,20 s.).
Gli esseri umani sono e restano realmente tutti uguali in quanto realmente tutti peccatori bisognosi di perdono. Anche i discepoli di Gesù debbono riconoscere umilmente quanto l''apostolo scrive per divina ispirazione: «Sia Dio riconosciuto verace, ma ogni uomo bugiardo» (Rom. 3,4). Dio detiene e mantiene realmente l''esclusiva della veracità. Ogni essere umano, invece, non è che un povero bugiardo.
Ecco perché il Maestro Gesù rimprovera aspramente quanti si propongono come guide e maestri degli altri, elevandosi al di sopra degli altri per decidere ciò che è vero e ciò che è eretico, quale sia «il materiale sano e non inquinato da eresie», come è stato scritto anche di recente.
La paura delle eresie è il primo gesto del disamore. Invece, «nell''amore non c''è paura, ma l''amore perfetto caccia via il timore, perché la paura implica castigo e chi ha paura non è perfetto nell''amore» (1 Gv. 4,18). Forse si ha paura di perdere un potere acquisito sugli altri? Si teme forse che le idee circolino liberamente in modo che le persone, anche i credenti, possano fare confronti con la Sacra Scrittura in mano? Forse si teme che le chiese non siano più capaci di distinguere col Vangelo il materiale sano dall''inquinato?
Paolo, che non aveva di queste paure ma era mosso dal suo amore di apostolo, scrive addirittura che bisogna che ci siano eresie, occorre cioè che esse emergano, «affinché quelli che sono approvati siano manifesti fra voi» (1 Cor. 11,18 s.).
Ma questa «approvazione» è quella di Dio (come indica il passivo "sono approvati") e della Sua parola, non certo quella derivante da un gruppo di supervisori che si autoeleggono in mezzo alle chiese quali censori del bene e del male. La mossa che smaschera i veri eretici è quella di pretendere di costituire un gruppo di uomini deputati ad esaminare scritti e detti allo scopo di individuare e combattere eresie.
I veri discepoli di Gesù sono «tutti fratelli». Hanno tutti superato la «malattia mortale», pur continuando ad aver bisogno del perdono di Dio (1 Gv. 1,8 ss.; il tempo presente greco indica continuità). I «fratelli» riconoscono la veracità esclusiva di Dio. Ascoltano il loro Maestro unico. Sanno che chi s''innalza finirà per essere abbassato da Dio (Mt. 23,8 ss.).
5. Il trapiantato, ricordano Abate e Mastrofranco, ha già vinto tutto quello che c''era da vincere. Ha vinto sulla malattia.
Anche in questo aspetto si trova una somiglianza straordinaria con l''esperienza della persona in cui è stato trapiantato il Cristo. Questa persona ha vinto il male grazie a Cristo Gesù. Ecco quanto scrive Paolo apostolo:
Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, non ci donerà ogni cosa insieme con Lui? (...) Chi ci separerà dall''amore di Cristo? La tribolazione, l''angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (...) Ma in tutte queste cose noi vinciamo facilmente, in grazia di Colui che ci ha amati. Sono persuaso infatti che né morte né vita, né angeli né Principati, né presente né avvenire, né altezza né profondità, né alcun''altra creatura ci potrà mai separare dall''amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rom. 8,31 ss.).
Quale stupendo legame s''instaura con Cristo. Con Cristo e in Cristo è davvero l''amore a vincere, non la paura! Col suo amore verace e la sua verità amorevole (Ef. 4,15) egli vince ogni condizione a noi avversa, presente e futura, ogni potere, ogni tribolazione, sia la morte, che tanto temiamo, sia la vita, che spesso coi suoi richiami e le sue illusioni rischia di allontanarci dal Dio verace. E non è solo Gesù Cristo-Agnello a vincere, ma «vinceranno anche quelli che sono con lui, i chiamati, gli eletti e i fedeli» (Ap. 17,14).
6. Un''ultima, importante osservazione di Abate riguarda la guarigione; non solo la guarigione dal cancro al fegato, ma anche la guarigione da quella che egli definisce presunzione del dolore. Che cos''è la presunzione del dolore? Si tratta di quell''atteggiamento mentale per cui il mio dolore sarebbe più grande di tutti gli altri dolori di tutti gli altri esseri umani. Lo scrittore racconta che alcuni farmaci, assunti dopo il trapianto, gli davano effetti lisergici (visioni). Si possono vedere anche le figure dei propri morti. Ciò accade anche a lui, che è mosso a chiedere loro scusa (di qui il titolo del libro) per aver pensato che il proprio dolore fosse superiore al loro e a quello di tutti. L''esperienza di trapiantato gli fa invece comprendere che dietro di noi ci sono tutti quelli - anche i nostri morti - che non ce l''hanno fatta, che sono deceduti. Si comprende infine che il nostro dolore personale, per quanto grande, è in realtà solo parte dell''immenso dolore del mondo.
Anche qui l''accostamento al Vangelo e alla condizione del credente è straordinario. Il credente è seguace di Colui che è «familiare col patire» (Is. 53,3). La fede fiduciosa in Cristo non produce facili entusiasmi, fanatismi, banali esaltazioni, velleitarismi evangelistici. Queste condizioni sono proposte dagli imbonitori, non dai predicatori seri del Vangelo.
I credenti hanno la piena consapevolezza di vivere in condizioni presenti di sofferenza, sorretti dalla gloria futura che sarà rivelata (Rom. 8,18). Grazie alla parola del Vangelo, il discepolo conosce la reale situazione in cui egli si trova all''interno della creazione:
La creazione stessa è nell''attesa della rivelazione dei figli di Dio; essa fu sottoposta alla vanità - contro il suo volere, ma per volere di colui che l''ha sottomessa - nella speranza che anch''essa, la creazione, sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene che tutta quanta la creazione fino ad oggi geme nelle doglie del parto; né solo essa, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, noi pure interiormente gemiamo nell''attesa della redenzione del nostro corpo. Poiché è nella speranza che siamo stati salvati! (Rom. 8,19 ss.).
In questa citazione si sono sottolineati alcuni termini che parlano di attesa dolorosa, vanità, corruzione, travaglio interno ed esterno cui ogni cosa è soggetta: non è delineato proprio qui l''immenso dolore del mondo? Immenso almeno quanto la speranza di salvezza in Cristo, per cui «se speriamo quello che non vediamo [la salvezza], noi lo attendiamo con perseveranza» (Rom. 8,25). Non ci si accorge di portare su ogni centimento quadrato del nostro corpo il peso della forza di gravità; ma necessitiamo di tanta perseveranza per portare sulle spalle il peso del nostro passato, del quale molti sembrano non riuscire a sgravarsi neppure grazie a Cristo.
Nella tragica concezione greca dell''uomo - malcelata, ma presente anche nel mondo postmoderno - Edipo fa del tutto per fuggire il proprio passato e le profezie funeste che incombono su di lui. Inutilmente! Alla fine si avvede del suo rapporto incestuoso con la regina sua madre e si strappa gli occhi. L''uomo vede se stesso come sovrastato e controllato da «elementi» (gli stoikeia di Col. 2,8), da forze, potenze, principati (Col. 3,15) che sembrano determinarne il triste destino (fātum). La sorte di Ulisse è causata dagli dèi a lui avversi. Chi non si è identificato con Odisseo almeno in qualche circostanza della propria vita? L''uomo non riesce a liberarsi del proprio passato. Che tipo di famiglia ho avuto? Ho avuto un buon padre o sono sotto l''influenza di un genitore malvagio? Ho avuto una buona madre o ne ho avuta una che non mi ha amato? E poi la domanda molto moderna: che cosa racconta il mio DNA? Oppure, ancora: da che parte del mondo provengo, da un''area nobile - come era considerata l''Ellade - o da una zona barbara? Anche oggi non c''è forse chi giudica gli altri dalla loro provenienza geografica? Settentrione e meridione, e quindi il settentrionale e il meridionale, con gli stereotipi che seguono...
In questa situazione non si è forse tentati di cedere alla tentazione della presunzione del dolore? Tu non puoi capire il mio dolore; la mia pena è la più grande di tutte; nessuno ha avuto un dolore pari al mio... Molti, anche fra i credenti, si lamentano continuamente, al punto che non li si può più aiutare con consigli ed esempi, né essi stessi si rivolgono al Padre per chiedere sostegno spirituale e forza morale. La cosa grave è che non li si sente mai ringraziare Dio di cuore perché, se è vero che un tempo sono stati naufraghi della vita, oggi però, grazie a Cristo e nella chiesa, hanno ritrovato la rotta giusta. Invece, lagnandosi continuamente, ci si riempie di amarezza, si cede al peccato di presunzione del dolore.
Si impone qui una domanda seria: Dio conosce l''immenso dolore del mondo? Dio comprende il nostro dolore che sembra inconsolabile? In altri termini: ci sarà mai vera gioia per l''uomo?
Il tempo dedicato a questa lezione consente solo una risposta in forma di tesi. Sì, Dio conosce e comprende di certo tutto questo male e vede anche il mio dolore personale. Per questo ha mandato Cristo Gesù. Nessuno meglio e più di Dio conosce il nostro bisogno di porre fine al dolore nostro personale e alla pena del mondo. Ecco infatti quanto egli preannuncia e promette:
E vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi e il mare non c''era più. E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da presso Dio, pronta come una sposa adorna per lo sposo. E udii una voce potente che diceva dal trono: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! E prenderà dimora con loro ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro, e tergerà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non ci sarà più; nè vi sarà più lutto, né lamento, né dolore, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»; e soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veraci» (Ap. 21, 1 ss.).
Queste «parole fedeli e veraci» del «Dio verace» contrastano in modo radicale con tutte le promesse di facile felicità fatte da sempre e ad ogni generazione da uomini «bugiardi»: promesse di generali, impegni di governi, giuramenti, voti, affermazioni, dichiarazioni di religiosi, parole date, impegni assunti...
Ma qui Giovanni è esortato a scrivere per trasmettere una novità assoluta a tutte le generazioni. Resta vero che non c''è niente di nuovo sotto il sole (Qoelet). Ma quando un giorno il sole non sarà più (Ap. 21,23), quando un giorno lo splendore sarà solo quello di Dio, allora si potranno fare «nuove tutte le cose». Quale sarà la fine della storia? Ci sarà alla fine gioia vera. Ci sarà alla fine consolazione vera. Saremo finalmente con Lui e Lui con noi. Anzi, grazie all''Emmanuele, Dio-con-noi, il credente ha già qui e oggi un''anticipazione di tutto questo. Il discepolo infatti è parte viva del reame di Dio, che già ora è giustizia, pace e gioia «nello Spirito Santo» (Rom. 14,17). Nonostante il dolore.
Sì, Dio non può non conoscere e non comprendere tutto questo male e non può non vedere anche il mio dolore personale. Non è lui infatti l''Iddio delle «cose ignobili e disprezzate» secondo il mondo? Non è lui che ha scelto «ciò che è nulla» secondo il mondo per «annientare le cose che [per il mondo] esistono» (1 Cor. 1,28)? Valido motivo in più per prendere sul serio il consiglio dell''apostolo:
Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto; questo soltanto so: dimenticando le cose lasciate indietro, e protendendomi a quelle innanzi, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. Chiunque è perfetto abbia dunque questi sentimenti; che se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto in cui siamo giunti, continuiamo ad avanzare (Fil. 3,13 ss.).
Solo Gesù è dotato della calma e della sobrietà necessarie per permetterci di fare i conti col nostro passato, con le nostre paure, col nostro destino avverso. Solo Gesù ci presenta quel Dio paterno-materno che non incombe su di noi con un triste fato, ma che ama, guida, illumina, rincuora, incoraggia le sue creature. Anche nel dolore.
Se Dio è capace di «non ricordare più i nostri peccati» (Eb. 10,17), allora può anche insegnare a noi come dimenticare il nostro passato storto, errato, contorto. Il discepolo che si affida e confida in Dio, guarda avanti per protendersi verso la meta che Dio gli propone, ben delineata da Giovanni poco sopra. La presunzione del dolore può esser superata imparando a confidare nel Dio della speranza. Per la gioia che ci è posta dinanzi si può imparare a sopportare. Proprio come fece Gesù (Eb. 12,2).
Con Dio noi possiamo crescere, cercando d''imparare gradualmente a non ripetere gli errori del passato. La parola del Maestro è «protendersi» verso le «cose nuove» che stanno dinanzi. Fissi alla meta. Guardare avanti. Non volgersi indietro dopo aver messo mano all''aratro. Imparare cioè a dire un evangelico «no» alla sindrome del dio bifronte. Solo Cristo Gesù, lui e nessun altro, è stato fatto «sapienza, giustizia, santificazione e liberazione» dal male, affinché chi si gloria si glori in lui e in lui soltanto (1 Cor. 1,30 s.). Solo Gesù può dire in modo credibile: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò» (Mt.11,28).
© Roberto Tondelli, 2010
info@chiesadicristopomezia.it
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