Riconciliazione
Hans Küng ha dato alle stampe l’interessante volume Tornare a Gesù (Milano, 2013). Non un’opera nuova, ma la rielaborazione divulgativa di una sezione del suo famoso Essere cristiani (1974). L’Autore scrive bene anche quando tratta questioni complesse, il che facilita il compito del traduttore, e quindi del lettore. Si può concordare o meno con alcune sue tesi, ma egli riesce sempre a muovere il pensiero, sia che si tratti di provocarne la reazione rispetto a verità che paiono acquisite, ma che l’Autore critica, sia che si tratti di proporre dati e comparazioni che stimolano chi legge. In tal modo il discorso rende attenti e prudenti in quella sorta di lettura-discussione tra Autore e lettore che caratterizza i buoni saggi. Tornare a Gesù è un libro che provoca fin dal titolo, perché se si tratta di tornare, vuol dire che…
La quarta sezione del testo è dedicata alla Causa dell’uomo, cioè a quel mutamento radicale che coincide con la sua “rigenerazione”, la “dedizione dell’uomo alla volontà di Dio” (Küng, 151; cfr. Tito 3,5) intesa come “integrale orientamento della vita umana verso Dio”. È la metànoia, o conversione: “la decisiva trasformazione della volontà, un coscienza trasformata fin dalla radice: un nuovo atteggiamento di fondo, una diversa scala di valori… Conta solo il futuro migliore che Dio promette e dona, un futuro al quale ci si dovrà dedicare irrevocabilmente, senza riserve, senza voltarsi indietro dopo aver posto mano all’aratro. L’uomo può vivere del perdono… la conversione scaturisce da quella irremovibile, incrollabile fiducia in Dio e nella sua parola cui già nell’Antico Testamento si era dato il nome di fede… Non l’eroismo viene chiesto all’uomo: è sufficiente vivere della fiduciosa gratitudine di colui che ha trovato il tesoro nascosto nel campo, che ha comprato la perla preziosa” (Küng, 152-153).
L’invito di Gesù alla conversione è un invito alla “gioia”. Riecheggia in questa pagina di Küng l’attacco del sermone della montagna, “beati!”, o anche la parola rivolta agli stanchi e oppressi: “io vi darò ristoro… il mio giogo è dolce, il mio carico è leggero” (Mt 5,2; 11,29). Quale la motivazione di questa “gioia”? Eccola: “la volontà di Dio è il bene dell’uomo… tende al bene dell’uomo a tutti i livelli, tende al bene definitivo e completo, in termini biblici alla ‘salvezza’ che si traduce in aiuto, risanamento, liberazione. Dio vuole la vita, la gioia, la libertà, la pace, la salvezza, la grande felicità ultima dell’uomo: del singolo e della collettività” (Küng, 154-155).
Muovendo da queste realtà concrete che riguardano la rigenerazione, la conversione, la fede fiduciosa, la gratitudine, la gioia dell’uomo, Küng dimostra in modo chiaro come Gesù relativizzi il Tempio (di Gerusalemme) e con esso l’ordine del culto e la liturgia (Küng, 158). Non che il culto a Dio non abbia una sua rilevanza, ma deve prevalere la tesi, rivoluzionaria rispetto alla concezione tradizionale, che “prima” devi riconciliarti col tuo fratello e “poi” puoi tornare a rendere il culto a Dio. La riconciliazione è primaria rispetto al culto perché “l’offesa all’umanità dell’uomo sbarra la strada al vero servizio divino” (Küng, 159, v. Mt 5,23 s.).
Occorre riuscire a cogliere la portata di queste affermazioni così aderenti a Gesù. I casi di sonno dell’anima, di banalizzazione dell’evangelo, di faciloneria costituiscono un insieme dotato di infiniti elementi, spesso confluenti nel fatale “www”, frutti di torpore e superficialità. Non è una novità che l’uomo preferisca spesso fare il contrario di quanto Dio gli consiglia per il suo bene. Perciò sceglie prima l’offerta di “culto” e poi – un poi con molti se e molti ma – eventualmente la riconciliazione. Che poi, in pratica, non si attua quasi mai. Consideriamo dunque da questa infinità di elementi qualche caso tra quelli che appaiono più sorprendenti.
Io sono stato giovane
Le chiese che appartengono al Signore fanno ciò che possono coi loro mezzi; spesso, mosse da amore fraterno, vanno oltre il possibile (2 Cor 8,3). Il Signore non chiede a una chiesa locale di fare ciò che non può. In una situazione di seria necessità determinata da un incidente grave sul lavoro una chiesa decide d’intervenire con un aiuto. La decisione sembra unanime e dettata da amore (proprio come a Gerusalemme, Atti 4,32 ss.). Ma uno dei membri, un giovane in salute, pretende che la chiesa aiuti anche lui perché al momento è disoccupato. E si picca perché: è stato aiutato quel tale, ma a me non pensa nessuno!
La pretesa si commenta da sé. Non sembra dettata da rigenerazione, conversione, fede, gratitudine, gioia. Una variazione sul tema degli svogliati tessalonicesi (1 Tes 3,10 s.). Si può partecipare alla mensa del Signore, ma se si cessa di farsi guidare dal suo Spirito si resta privi d’amore, come un “bronzo che risuona” (1 Cor 13,1).
Sollecitato al ravvedimento, quel tale si defila. Agendo alle spalle di coloro che lo hanno ripreso, va a lagnarsi presso altri, senza ricordare che già due volte qualcuno nella chiesa lo ha aiutato a trovare lavoro. Lavori poi perduti; proprio come ora ha perduto ogni gratitudine verso la provvidenza di Dio, e quindi anche la gioia e la fiducia nella parola che dice:
Io sono stato giovane e sono anche divenuto vecchio,
ma non ho mai visto il giusto abbandonato,
né la sua discendenza mendicare il pane (Sl 37,25).
Mal consigliato, l’impenitente si arrocca, restando così privo di perdono (Atti 8,22 ss.), “legato” al peccato a causa del suo mancato ravvedimento (Mt 18,18). Chi cerca il sostegno di uomini pur di evitare il ravvedimento, non dà gran peso al vero sostegno da ricercare, quello di Dio; dimostra così, purtroppo, di aver inteso poco o nulla di rigenerazione, conversione, fede, gratitudine, gioia nel Signore. Probabilmente non ricorda più che è “debitore perfino di se stesso” verso chi lo ha evangelizzato (Filem v. 19), e in che cosa è consistita quella evangelizzazione: non solo parole, ma solidarietà concreta e compartecipazione alle sofferenze insite nella scelta per Cristo, cioè per la rigenerazione, la fede fiduciosa, la gratitudine verso Dio e la gioia in Dio.
Se un discepolo di Gesù dovesse incontrare quel tale, quale dovrebbe essere il consiglio migliore che potrebbe dargli se non la riconciliazione che procede da ravvedimento? Cioè l’azione buona che nel regno di Dio è primaria rispetto a ogni altra. Per Gesù, senza riconciliazione sincera coi fratelli l’offerta è vana (i peccati non vanno in prescrizione). Per questo la riconciliazione che procede da ravvedimento costruisce davvero il regno di Dio. Il che resta vero anche se tutti dovessero seguire comportamenti diversi da quelli nobili che caratterizzano il reame del Signore.
Se il sale diventa insipido
Questa diversità di comportamenti si verifica. Alcuni possono purtroppo “fare questo in memoria di me” come cerimonia (rito che richiama il tempio, il culto, la liturgia), quasi che Dio avesse bisogno del nostro culto e non noi della riconciliazione che procede da ravvedimento: il che deve venire prima del culto. Altri possono purtroppo smettere di “fare questo in memoria di me”, forse perché cessano di “discernere il corpo del Signore” che è la chiesa (1 Cor 11,29; 10,16 s.). In entrambi i casi c’è purtroppo una dimenticanza seria: gli uni e gli altri hanno dimenticato l’amore concreto di cui sono stati oggetto da parte di Dio il quale, ricordiamolo, è realmente provvidenziale. Solo qualche esempio:
· Dio che ha provveduto loro chi li consigliò per il meglio: quando, ad esempio, nacque un bimbo handicappato, e un genitore cristiano ma immaturo voleva non riconoscere quel figlio sfortunato, ecco che qualcuno, più maturo, consigliò per amore di Cristo di accogliere quel bimbo con amore – scelta che si sarebbe poi rivelata dolorosa ma buona;
· Dio che ha provveduto loro fratelli e sorelle che hanno assistito il vecchio genitore malato terminale e pregato alla sua morte;
· Dio che ha dato loro fratelli e sorelle che sono stati accanto a loro in ospedale quando si è trattato di andare, di sera, a parlare coi medici perché il figlio adulto, ma immaturo, diceva di essersi ferito gravemente;
· Dio che ha dato loro sorelle e fratelli che li hanno consigliati, confortati, incoraggiati, sorretti, aiutati in tante situazioni difficili della vita;
· Dio che ha aperto loro gli occhi mediante una evangelizzazione sana, onesta, frutto di lettura accurata dell’Evangelo e, come quella di Gesù, priva di “parole melliflue” (Küng, 160), ma che ricalcava gli accenti seri, amorevoli di Gesù (quanti, tuttavia, amano dire e udire proprio parole che blandiscono);
· Dio che ha provveduto chi ha insegnato loro che una donna di una certa età dev’essere “maestra” delle figlie in ciò che è “buono”, affinché anche le figlie siano poi maestre di fede fiduciosa verso i figli e i mariti (Tito 2,3 s.; 1 Pt 3,1 ss.; 2 Tim 1,5 – non è vero che la Scrittura che dice queste cose sia un testo troppo antiquato per regolare la nostra vita moderna);
· Dio che ha provveduto chi ha insegnato loro che il marito dev’essere rispettato dalla moglie e che il padre va rispettato da figli e figlie (Ef 5,33 ss.; 1 Tim 3,4; Ef 6,2: brani da leggere nel contesto di mutuo amore del marito per la moglie e del padre per i figli: “come Cristo fa per la chiesa”! – non è vero che la Scrittura che dice queste cose sia un testo troppo antiquato per regolare la nostra vita moderna);
· Dio che ha dato loro una chiesa/comunità che è genuina non perché ha in se stessa la fonte della propria verità, non perché è dedita a pratiche e metodi e strumenti più potenti della “potenza di Dio” (Rom 1,16), non perché si mette ogni momento in vetrina a mostrare iniziative proprie e propri programmi (in contrasto con Gesù? Mt 6,1), ma perché è una chiesa che si edifica unicamente su Gesù morto-e-risorto, Signore anche di coloro che pensano di sapere quel che fanno. Dunque una chiesa che è in grado di preoccuparsi dello stato spirituale dell’uomo impenitente, di richiamarlo al ravvedimento, di pregare per la sua conversione, anche quando tutto il mondo lo accogliesse e lo blandisse, senza però amarlo di quel vero amore che produce ravvedimento e riconciliazione e poi anche rigenerazione, fede fiduciosa, gratitudine verso Dio e gioia in Dio. La chiesa, in sintonia con Gesù, sempre invita i peccatori al ravvedimento vitale (Ap 22,17), anche di fronte alla mirabile capacità del male di autoamplificarsi, capacità che lascia stupefatti, come sempre dinanzi al mistero del male.
· Dio che continua a consigliare loro che le compagnie cattive non possono non corrompere i costumi buoni (1 Cor 15,33 – ma alcuni mostrano di non fidarsi neppure di questa parola);
· Dio che continua a proporre loro la scelta radicale d’amore verso di lui come opzione superiore, primaria, incomparabile rispetto, ad esempio, all’amore per i parenti [Mc 3,34; Lc 14,26 – ma alcuni, ubbidienti alla forte legge della parentela, abbandonano Gesù e disprezzano quei “fratelli, sorelle, madri e figli” che Dio stesso aveva loro dato (Mc 10,30)].
Domandiamoci in coscienza: questo Dio non merita forse fede fiduciosa e gratitudine? Non è proprio questo l’Iddio che l’uomo dovrebbe ringraziare di continuo per la propria rigenerazione, conversione, fede, gratitudine, gioia nello Spirito di Dio?
Negli Atti degli apostoli Luca ispirato da Dio affresca stupendamente l’attività lieta delle prime assemblee di Gesù Cristo. Esse non sembrano giardinetti privati né club dell’amicizia. Per loro la proclamazione dell’evangelo era forte e schietta e universale. Azione e predicazione non erano autoreferenziali, prive di confronto, né temevano il contrasto (si ricordi il caso di Stefano, Atti 6,9). Oggi, invece, la parola d’ordine è di non giudicare nessuno, di non dire neppure la più piccola paroletta che possa offendere qualcuno. Va bene non essere urtanti nel porgere l’Evangelo, ma è errato rifuggire da ogni confronto perché può portare (= si teme porti) a un contrasto, e il contrasto può portare alla ricerca, e la ricerca può portare a conclusioni forse opposte ai dati noti, acquisiti, tranquilli… acquisiti forse per tradizione?
Si dice di voler evitare il giudizio, mentre sembra imperare il pregiudizio. La paura cancella l’identità e svuota l’amore di contenuto (1 Gv 4,17 ss.).
Che direbbe il Gesù-della-riconciliazione di quei discepoli appartenenti a questa o a quella chiesa… non importa quale perché l’importante sono le “sacre istituzioni e tradizioni e i loro rappresentanti” (Küng, 160)? Che direbbe il Gesù-della-riconciliazione di membri che si associano ora qua ora là, dipendendo non da Gesù Cristo ma da simpatie, antipatie, gusti, convenienze (si riesamini 2 Tim 4,2 ss.)?
La società moderna pone anche al credente sfide morali notevoli, questioni etiche brucianti, le quali troppo spesso non sono neppure sfiorate da una domanda, da un dubbio, da una questione e meno ancora dalla ricerca biblica. Si continua invece a coltivare una religiosità bucolica, si enumerano i battesimi, si conta il numero dei presenti, e c’è anche chi sottolinea che la nostra chiesa aumenta di numero più della vostra, traendone l’indebita conclusione che... – e tutto ciò mentre la società va in pezzi, le famiglie si sgretolano, le relazioni personali ritenute salde si sfasciano, la disperazione impera... Tutti si sta non come sull’arca di Noè, ma piuttosto come sul Titanic. Gelo fra le persone e carenza d’amore sono così profondamente avvertiti (ma non se ne dice) che basta un uomo che dica un cordiale “buona sera” perché centinaia di milioni di persone si sentano irresistibilmente attratte da tanta amabilità.[1]
Qual è mai il criterio biblico spirituale che fonda quest’amore per il numero? E che direbbe il Gesù-della-riconciliazione di quest’amore per liste e statistiche? Che direbbe, ad esempio, del fatto che proselitismo e ripetizione e sistema sembrano avere ormai sostituito evangelizzazione e lettura e studio?
Che direbbe il Gesù-della-riconciliazione al discepolo che non riconoscesse più come peccati l’egocentrismo, la viltà d’animo, la vanagloria, la mostra di sé, la mellifluità, l’incoerenza palese, la simulazione, l’azione subdola, la supponenza, la burocrazia religiosa, la calunnia, la mancanza di rispetto, peccati che violentano e sfasciano e sabotano il regno divino? Che direbbe Gesù al discepolo che non riconoscesse più come peccato il disamore alla riflessione, l’amore pagano per la quantità, il tentativo insistente di render facile (superficiale!) l’Evangelo, banalizzandone le stesse parole, mancando persino alla parola data (il cristiano dovrebbe sapere che “la parola era Dio”)? Che direbbe Gesù di chi a questioni morali/spirituali serie risponde che: in questo o in quel Paese a certe cose non si fa più caso perché le chiese sono molto numerose? Ma se all’incremento numerico corrisponde un decremento spirituale/morale conclamato vuol dire che…
Non è forse il caso di chiedersi in coscienza e in spirito di umiltà se per caso il sale della terra non stia diventando insipido? Forse è giunto il momento di porsi in modo autocritico l’altra domanda radicale: è possibile che persino chi “fa questo in memoria di me” abbia di fatto dimenticato che “il regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo” (Rm 14,17)? Si rilegga bene il brano, che dice: giustizia nello Spirito di Dio e pace nello Spirito di Dio e gioia nello Spirito di Dio.
Ecco tre condizioni regali da intendere bene e attuare in tutta la loro potenza spirituale neotestamentaria. Non retorica vuota, ma tre aspetti che pongono a ciascuno la domanda critica, da fare in coscienza e in base alla “notizia buona del regno di Dio” (Mt 4,23) proclamata da Gesù: si vuole davvero contribuire al regno dei cieli o si preferisce la permanenza nel dominio dell’ego? La risposta cui invita Gesù è palese. Il ravvedimento è frutto di “tristezza secondo Dio”, ma una tristezza “di cui non c’è mai da pentirsi” (2 Cor 7,10).
Come insegna l’Evangelo, Gesù non solo era ma è dotato di una personalità dalla caratteristica essenziale, “la combattività” (Küng, 160). Il richiamo alla “riconciliazione” non è, non può e non vuole essere mero richiamo al banale “vogliamoci bene”. Riconciliazione è cosa forte, viva, vitale, che richiama il discepolo con nobili parole regali: rigenerazione, conversione, fede fiduciosa, gratitudine, gioia nello Spirito di Gesù. Riconciliazione è realtà costosissima, perché Gesù che non sperimentò il peccato morì come peccatore per tutti “affinché diventassimo giustizia di Dio in lui” (2 Cor 5,11 ss.). La riconciliazione si fonda dunque su Cristo Gesù, lo stesso che vieta di gettare perle ai porci, ma che pure le ha dovute gettare le sue perle, per vedere di che pasta siamo fatti tutti noi.
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[1] Senza voler con ciò nulla togliere al vento di rinnovamento che spira in Vaticano. Questi sarebbero i tanto desiderati numeri, se il numero valesse qualcosa in ambito religioso. Questa sarebbe la strada da seguire, se non si amasse la via stretta percorsa di Gesù. Ci si accontenta di qualche battesimo o di mezzo miliardo di fedeli, dimenticando che per Dio tali numeri sono esigui in entrambi i casi. Dio infatti aspira al massimo dei massimi, cioè a “tutti” (1 Tm 2,4; 4,10). Il che può far riflettere coloro che contano e poi creano liste e elenchi dei “nostri”.