Chi ha creduto alla predicazione dell''Evangelo?
Chi ha creduto alla predicazione dell’Evangelo?
Synopsis
Who has believed the preaching of the Gospel? Isaiah asks: “Who has believed our report”, i.e. our preaching (Rom 10:16)? In the text and context of his question occur three words that are as fundamental as water which makes us alive: “to believe”, “to preach” and “good news”. Were they really thought of, understood, said and put into practice, those words would be able to make divine love resound in the whole universe. Isaiah’s sorrowful question, taken by Paul, is becoming even graver today as Islam (whether moderate or radical) is knocking at the door. Those three words should move everyone to fruitful repentance, to behavior characterized by spiritual moral seriousness, humbleness, renewed deep faith “in the Lord”, love towards God and neighbors. That is what makes “to believe” worthy to be practiced even in moments of suffering, “to preach” so different from all sorts of human proselytism, and “good news” of the Gospel of Christ so incomparable.
Questa accorata domanda di Isaia – “chi ha creduto all nostra predicazione?” – riecheggia, ispirata da Dio, all’interno di quell’evangelo di Paolo che è la lettera ai Romani. Nel contesto del brano (Rm 10), egli è costretto a riconoscere amaramente che gli israeliti nutrono per le cose di Dio uno zelo privo della conoscenza di Cristo Gesù (Rom 10,2). Ecco perché essi sono indotti a ignorare la giustizia di Dio in Cristo (10,3); a non riconoscere che Cristo Gesù è proprio il “termine” della legge mosaica (10,4); a non confessare Gesù come Signore (= risorto! 1,4), e quindi a non ubbidire all’evangelo (10,9.16).
Di qui la domanda sofferta: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? (10,16). Vale a dire, chi si è fidato, chi si è affidato, chi ha ubbidito-per-fede all’Evangelo da noi predicato? Domanda gridata con angoscia dallo spirito di Isaia all’unisono con quello di Paolo, mossi entrambi dalla potenza dello Spirito divino.
Il contesto, coi suoi martellanti “ma”, conferma e rafforza il dispiacere e la delusione dell’apostolo costretto a constatare che Dio tende inutilmente le mani verso molti (10,21b). Nel momento in cui Paolo scrive, il solo barlume incoraggiante è costituito dalla risposta risolutamente positiva dei “gentili” (9,30); le genti pagane hanno trovato Dio, che non cercavano (10,20: sorprendente opposto del banalizzato detto chi cerca trova), quel Dio chiaramente conosciuto da coloro che non chiedevano di lui.
La domanda di Isaia, che Paolo fa propria, si ripropone oggigiorno con una intensità profetica antichissima e attualissima. Ma, realmente, chi ci crede alla predicazione dell’evangelo?
Ecco tre parole fondamentali come l’acqua, che fa vivere: credere, predicare, evangelo. Se esse fossero davvero pensate, dette, capite e attuate sarebbero sufficienti a far esplodere d’amore vitale il globo e il cosmo (di qui la banalità della domanda: voi quale metodo di evangelizzazione usate?).
Qui non si tratta di comunicare mediante belle frasi ad effetto, come ad esempio fa molto bene Bergoglio. Frasi dotate di bell’impatto comunicativo. Le capiscono tutti e paiono mirare a una reazione che attrae la simpatia delle folle, che le ripetono col gusto della parola saporita. Una strategia di grande richiamo. Ma che forse, a ben vedere, mostra un filo di disperazione?
Non si sa proprio più che cosa fare. Non si sa proprio più come fare per attrarre gente alla religione cristiana – ci si passi questo termine generico. Si ricorre persino al meravigliato e meravigliante commento biblico di un attore o alla predica di un altro. Attori come predicatori; forse perché coi tempi che corrono taluni predicatori si comportano da attori? Tutto si fa pur di cercare di dare un qualche valore a gente che non vuole proprio più sforzarsi di pensare. Gente che avveduti maestri, insegnanti, educatori, politici e anche predicatori hanno ‘educato’ a non pensare. Pensare è pericoloso. Perché dal pensiero può nascere la parola. Dalla parola l’azione. Che si fa comportamento. E responsabilità. Ma la responsabilità è proprio ciò che tutti rigettano all’unanimità il più lontano possibile. Perché la responsabilità è fatica. È fatica, come è fatica e sofferenza l’amore. È fatica come la vita.
Bergoglio, con la potenza dei mezzi di comunicazione, attua la sua opera. La Torre di Guardia, non meno potente, continua a inviare operatori con milioni di pubblicazioni che danno risposte pronte a domande pronte (non sono i soli), annunciano giudizio e tanta bibbia. Evangelicali d’ogni genere s’impegnano in campagne, fanno la spesa di solidarietà, i cori gospel, fiaccolanti siti web, prediche spirituali, testimonianze di molti che hanno accettato Gesù come Signore e di colpo hanno smesso di bere e di fumare. La rete pullula di professori che si propongono come seri didaskaloi (insegnanti) sia della lingua inglese sia della bibbia (sempre con la “b” minuscola). Telepredicatori fanno del tutto per farsi ascoltare. La telepredica è monotona e sgrammaticata? che importa, se è incravattata e computerizzata? Tutto fa, tutto va, tutto serve allo scopo (quale?). Si fanno, per così dire, carte false pur di predicare, insegnare, influenzare, attirare. E si arriva a credere tutto, a sperare tutto. Anche il comportamento più falso viene accreditato con faciloneria. Anche alla parola contraddittoria si dà retta. Si stima la parola di chi fa un rapido (e anticristiano) voltafaccia. Il figliol prodigo che ritorna senza alcun segno né frutto di ravvedimento viene accolto con una pacca sulla spalla. E con simili metodi e pietre viventi si pretende di ricostruire nientemeno che le mura di Gerusalemme. Risuona sottaciuta la parola d’ordine – opposta a “la parola” di Giovanni (1,1) – la quale vuole che qualsiasi comportamento e iniziativa, per banale e assurda che sia, purché accattivante e attraente, passi per essere soffio dello spirito (del mondo o di Dio? Nessuno se lo chiede). Cioè tutto, ma proprio tutto, può servire ad aumentare il numero, incrementare le offerte, allargare i confini del (cosiddetto) regno di Dio. La logica è la stessa, sia che si tratti di dilatare ad infinitum il berniniano colonnato di piazza San Pietro, la neoacquisita sala del regno o le quattro mura dell’ultima delle congreghe.
Tutto, ma proprio tutto serve per trarre discepoli dietro a sé (non è questo lo scopo?). “Attrarre discepoli dietro a sé”. Ecco un’altra frase accusatoria di Paolo dotata di un impatto profetico straordinario nel tempo e nello spazio, ma di cui forse egli stesso non si rese conto appieno quando la pronunciò rivolta a vescovi cristiani (proprio a cristiani! Atti 20,30b). E per un tale scopo vergognoso si può arrivare a “non risparmiare il gregge”, si può arrivare cioè a dilaniare pecore e agnellini pur di ottenere un gregge, immenso come l’ecumene o piccolo piccolo, ma un gregge proprio. Un gregge da sermonizzare, un gregge docile, che segua acritico, che ascolti per “prurito di udire” ciò che vuole sentirsi dire, che ascolti con intima soddisfazione, con edificata tranquillità paciosa. Pecore senza mente, senza memoria. Raccolte nell’ovile dove regna Cristo o domina Circe?
Non è così che si continua a “scorrere mare e terra per fare un proselito”? Dice bene Gesù, si lavora tanto (anche con slealtà) per fare proseliti. Però solo per farli nostri, per farne adepti, conniventi, favoreggiatori, non certo discepoli pensanti del “maestro unico” che libera mediante la verità (Mt 23,15.8; Gv 8,24).
È proprio per questo, per tutto questo, che la domanda accorata di Isaia, raccolta con dolore da Paolo, si è fatta più grave ancora, fino a divenire disperata e disperante, oggi che alla porta batte non il Cristo dell’Apocalisse (3,20) bensì l’Islam (moderato o radicale che sia). Ciò dovrebbe muovere tutti a serissimo ravvedimento, a comportamenti improntati a spirituale serietà morale, umiltà, umiliazione, rinnovata fede approfondita “nel Signore”, amore totale verso Dio e verso il prossimo. Quell’amore che, travalicando gli steccati imposti da uomini meschini, annuncia finalmente l’avvento del “regno di Dio”; non un’espressione teologica ma l’attuazione seria di “giustizia, pace e allegrezza” intese però “nello Spirito” che è Dio (Rom 14,17; di qui evidentemente può scaturire una ricerca seria e attenta di che cosa sia giustizia, che cosa sia pace e che cosa sia allegrezza secondo Dio, e non secondo l’uomo).
Tutto al contrario. Certa religione raschia il fondo del barile dei surrogati che dispensa a piene mani, senza rinunciare all’effetto della vetrina, dove tutto si abbellisce e si glorifica e si esalta e si magnifica e a tutto si inneggia.
Ma la domanda posta da Dio a ciascuno e a tutti noi torna potentissima alla mente di chi vuole fare memoria: chi ha creduto alla nostra predicazione? Chi è disposto davvero a dire di sì alla fatica della fede?
• la fatica della fede che ubbidisce, pur soffrendo, all’Evangelo della sofferenza qui-e-ora; non è adesso il tempo della gloria e il tempo dell’autoglorificazione è mai;
• la fatica della fede che stima la verità che nessuno vuole più ricercare né che importa sapere, perché vale il Che t’importa... Non t’immischiare, non è affar tuo... Vivi e lascia vivere...
• la fatica della fede che confida, anche nel bel mezzo della pena immeritata da colui che si è comportato con onestà e dignità e serietà e amore e disinteresse;
• la fatica della fede che è fiducia anche quando si è ingiustamente incompresi, e si fronteggia la delusione cocente e volgare e inaccettabile, causata da chi è troppo superficiale per non tradire, troppo banale per non voltarsi dall’altra parte.
Chi dunque ha creduto alla nostra predicazione? Esplode come un colpo di cannone la domanda amara di Dio, rivolta a quanti, “ammaliati” come i Galati (3,1), guardano a bocca aperta la vetrina degli “eventi religiosi”, abbondante scintillante luminosa fascinosa perché imbiancata con candida calce d’ipocrisia.
Invece che lasciarsi attrarre dall’effetto alienante della vetrina, occorre ritrovare il “timore/rispetto di Dio” e il coraggio di tornare alle tre parole fondamentali presenti in quella domanda gravemente attuale: imparare con umiltà la fiducia in Dio mediante Cristo Gesù; essere pronti a testimoniare con coerenza e senza compromessi l’amore serio e responsabile che Cristo insegna alla mente della persona; abbracciare con coraggio la notizia buona (evangelo) della salute morale spirituale in Cristo. Così ritroveremo Dio anche senza cercarlo. Forse viene il tempo in cui bisognerà trovare il coraggio di saper soffrire per la fede in Cristo. Allora, se anche un solo uomo risponderà alla domanda divina con un “sì, io ho creduto, ho parlato, ho ubbidito”, Isaia e Paolo non avranno faticato invano. Dio non avrà teso le sue mani invano. Certo, uno solo è troppo poco per la logica del proselitismo. Ma è Gesù che ha detto che una sola anima vale più di tutto l’oro del mondo, e Isaia attesta (55,8) che la logica di Dio è antitetica alla logica dell’uomo.
© Riproduzione riservata
Roberto Tondelli – 2015
Bibliografia:
O. Kuss, La lettera ai romani (9-10) III, Brescia, 1981, 191 ss..
R. Penna, La lettera ai romani II. Rm 6-11, Bologna, 2007, 320 ss.
Vedi allegato
Torna alle riflessioni