Recensione
Hans Küng, La preghiera e il problema di Dio, Morcelliana, Brescia, 2018
All’interno della nutrita collana ‘Il pellicano rosso (nuova serie)’ della Editrice Morcelliana compare questo volumetto di circa 70 pagine. Lettura rapida ma intensa (è tratto da Preghiera e filosofia, 1991) con bella introduzione sulla crisi della preghiera (Roberto Celada Ballanti, associato di Filosofia della religione, Università di Genova). Il saggio di H. Küng si articola in sei capitoletti preceduti da una breve Avvertenza in cui compare una salutare affermazione critica: parlare a un Essere Superiore invece che agire è un abuso della preghiera (D. Sölle), la quale non può mai essere un alibi per la non-azione, né la fuga di chi non è capace o non vuole agire (p.19). L’attuale crisi della preghiera, che si pensa di constatare, è in realtà crisi della fede in Dio. Küng considera in breve ciò che accade alla preghiera con l’avvento delle scienze naturali (Cartesio, Newton), la filosofia di Spinoza, l’illuminismo (Diderot: “O Dio, io non so se tu esisti, però voglio pensare come se tu vedessi nella mia anima…”), Kant (preghiera come “superstizione”), Nietzsche (scherno per quanti “sono diventati di nuovo pii”). Eppure non c’è religione senza preghiera. Segue un confronto tra preghiera praticata nella Bibbia e meditazione zen. Per la prima, la base resta, la “norma del Vangelo di Cristo” (mi chiedo se questo costante rifarsi al Vangelo non abbia contribuito a fare di H. K. un teologo ribelle). La preghiera è “effusione del cuore” diretta all’unico Dio JHWH, in un dialogo che manifesta fede, speranza e carità nella “varietà e pluriformità individuale”. La meditazione zen (tautologia perché zen significa meditazione) è fatta di illuminazione personale cui si perviene o con graduale preparazione o in modo improvviso assumendo la posizione del loto, respirazione profonda, eliminazione dei pensieri sotto la sorveglianza di un maestro zen che può anche bastonare (!) e porre indovinelli sulla “realtà ultima”. Diversamente dal buddismo, che si attende tutto da un’altra potenza (tariki, grazia), lo zen conta sullo sforzo della persona che deve rinunciare al proprio egoismo. All’uomo nevrotizzato di oggi possono far bene la quiete, il silenzio, la concentrazione che però vanno ricondotti non a mere tecniche ma a metodi per ritrovare se stessi per incontrare l’Assoluto. Qualche influsso mistico si ritrova in Paolo e Giovanni (Vangelo), ma la meditazione mistica esiste soprattutto al di fuori del cristianesimo e l’influenza dell’ellenismo la determinerà più tardi, fra II e VI secolo, con la scuola alessandrina, poi Agostino ecc., fino alla mistica medievale (Teresa d’Avila). Tuttavia né Gesù né i primi discepoli erano dei mistici. Anche l’esempio della geniale Teresa (forse la più importante mistica) non fa dimenticare che “nel N. Testamento non esiste l’ideale di una preghiera interiore… non si conosce una scala della preghiera mistica che arriva all’estasi” (p. 40). Qual è dunque il nuovo pregare di Gesù? Come ebreo, Gesù prega con regolarità (almeno) tre volte al giorno, il che porta lontano dall’arbitrio del singolo nel pregare. Per Gesù, pregare è “cosa ovvia”, quindi non è un “obbligo”: non certo un dovere legale (medioevo) né un’opera meritoria né serve alle indulgenze. Gesù prega nella lingua materna (popolare aramaico), non in un linguaggio sacro. Chiama familiarmente Abbà (padre, papà) il suo Dio: quindi no alla sacra lingua latina imposta per secoli (e voluta ancora da taluni nostalgici). Gesù raccomanda la preghiera nel segreto, contro la preghiera “spettacolare” (e quindi, direi, contro la religione resa spettacolo – in televisione ma anche in certe insistenze fotografiche… – e a favore invece della preghiera intima attuata in uno spazio profano, la propria camera. Gesù raccomanda la brevità della preghiera, non chiacchiere e ripetizioni prive di “spontaneità, fantasia e creatività” (p. 47). La preghiera può essere così ripetitiva da divenire “priva di senso”! Gesù associa alla preghiera (p.es. Padre nostro) la disponibilità al perdono come condizione per ogni richiesta di perdono. No, dunque, alla preghiera senza conseguenze, no ad un pregare privatistico, non al pregare per la “salvezza della mia anima” dimenticando la coscienza della corresponsabilità verso gli altri. Sì alla preghiera nella Cena del Signore (si ricordi che eucaristia è ringraziamento) come memoria e segno di “unità” (Gv 17!) fra i cristiani. quindi preghiera che vuole superare steccati, barriere, indifferenze, indipendenze, autonomismi, ostracismi (veri e propri muri fabbricati spesso, direi, persino per meri interessi localistici). Pregare quindi come Gesù. Riguardo alla preghiera rivolta a Gesù, i testi che parlano della proskynesis (prostrazione) davanti a Gesù vanno intesi nella “visione retrospettiva” alla luce della risurrezione. Occorre perciò “promuovere un ritorno alla prassi neotestamentaria, che cioè – a prescindere dagli inni – le preghiere vengano rivolte al Padre mediante Gesù Cristo nello Spirito Santo” (p. 51). In conclusione, l’uomo come “essere linguistico” può esprimere la sua “fede parlante” nel pregare. Non certo una preghiera egoistica, tutta incentrata nei propri bisogni, né rivolta a un Dio “tappabuchi” o ridotto al rango di “santo soccorritore” (p. 64). Nella preghiera, Dio ci viene incontro “come il padre del figlio prodigo e mi rende capace di un impegno senza tregua a favore del prossimo, di vivere, agire e anche morire in maniera veramente umana” (p. 60), di ringraziare Lui anche quando “scopro che l’ingratitudine è la ricompensa del mondo: nella fede io so che egli mi sostiene anche in mezzo a tutte le delusioni”; guardando a Gesù so “che egli non mi abbandonerà né nella sofferenza né nella colpa, né nella vita né nella morte”. La lode, le richieste e la presentazione delle nostre manchevolezze, proprio come la richiesta di perdono al “tribunale della grazia”, tutto può essere oggetto di petizione a Dio in preghiera – persino la accusa a Dio, come attestano Giobbe e altri testi biblici. Quanto agli “esaudimenti”, spesso si presentano in modo totalmente diverso dall’aspettativa: Dio non va trasformato secondo i nostri desideri. Sia fatta la sua volontà, ecco la grande richiesta che abbraccia tutte le nostre piccole petizioni e le relativizza. La sua volontà è il bene che Dio vuole. In ogni momento della giornata si può parlare con Dio: prima di una decisione importante, con la preghiera a tavola (non per un ringraziamento formale dell’abbondanza, ma per riflettere su e magari agire per chi è solo e povero); durante la giornata una breve sosta, un breve momento dovrebbero essere possibili. “Intelletto, volontà e sentimento, esperienza e riflessione, esterno e interno, individuale e comunitario – tutte le dimensioni dell’uomo possono essere interessate” alla preghiera.
Nel complesso, un bel volumetto che discende da opere ben più ponderose dell’Autore, fra cui il suo Dio esiste? (Milano, 1979), un testo magistrale ancora valido per rispondere ai molti aspetti dell’ateismo tuttora rampante.
Roberto Tondelli
© Riproduzione riservata – 05 2019
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